Matrimonio e divorzio nell’antico Egitto

Statua del Faraone Horemheb e della regina Mutnedjemet, Nuovo Regno, XVIII dinastia, Museo Egizio di Torino

Molto spesso si è portati ad associare la civiltà egizia con il concetto di culto dei morti, trascurando gli aspetti della vita quotidiana di questo popolo.

Siamo dinnanzi ad una civiltà non solo amante della vita ma, soprattutto, evoluta nelle relazioni e nel modo di amministrare il regno! Tra gli istituti giuridici posti in essere dagli antichi egizi troviamo matrimonio e divorzio, questi istituti non erano solo conosciuti ma anche largamente utilizzati.

Il matrimonio.

Il matrimonio era una questione prettamente privata in cui l’uomo  acquisiva lo stato di hy (=marito) mentre la donna diventava ḥm-t (=moglie).

Non era necessario alcun rito davanti ad autorità civili o religiose, il solo consenso ad abitare nella stessa dimora espressamente manifestato era sufficiente. Sino al periodo tardo il consenso veniva espresso dal padre della sposa e dallo sposo, a partire dalla XXVI dinastia il consenso era invece espresso dai due sposi.

Questo delinea la prima grande differenza con il matrimonio celebrato nel XXI secolo dove è richiesta la presenza di un rappresentante dell’ordinamento civile ovvero di una autorità religiosa, in Italia è ammessa anche la fattispecie del matrimonio così detto concordatario, per cui la celebrazione con rito religioso produce anche effetti civili ovvero è possibile celebrare il solo rito religioso improduttivo di effetti civili.

La prima caratteristica di questa istituzione egizia si individua nella sua natura di matrimonio poligamico, era consentito avere più di una consorte.

Sovrani e membri della nobiltà generalmente si univano in matrimoni monogamici, cioè avevano una sola consorte, vi sono però prove che dimostrano la natura poligamica dell’istituto. La prima testimonianza risale alla VI dinastia, ci troviamo nell’antico regno, con i sovrani Teti e Pepi I: questi hanno avuto più di due mogli a testa.

Oltre alla possibilità di avere più di una consorte, ai nobili era concessa la possibilità di avere un harem di donne autorizzate a vivere nel contesto domestico.

In questo caso l’unica moglie capace di continuare la dinastia dando alla luce gli eredi era la moglie principale, questa non era per forza la consorte sposata per prima, ma la sposa preferita dal sovrano che riceveva l’appellativo di sposa reale.

L’incesto era largamente praticato, non di rado il faraone sposava la sorella. Proprio per questo una delle maggiori difficoltà per chi si occupa degli aspetti giuridici di questa civiltà è capire quando il termine sorella indica, in realtà, la moglie o meno.

Secondo egittologi come Wilson il faraone poteva avere molte mogli provenienti da contesti anche estranei alla famiglia reale ma la linea di discendenza più pura era senza dubbio quella portata avanti all’interno del medesimo nucleo famigliare. L’intento era quello di garantire una discendenza quanto più divina possibile per ridurre la possibilità di avere altri pretendenti capaci di reclamare il trono. Secondo Gardiner, in alcuni casi, era possibile anche il matrimonio tra padre e figlia; nello specifico viene citata la possibilità che Amenhotep III abbia spostato sua figlia, Sitamun. Il matrimonio tra padre e figlia era però poco usuale.

A partire dalla XVIII dinastia (nuovo regno) i matrimoni tra consanguinei al fine di garantire la purezza del sangue reale iniziano ad essere sempre meno praticati ed anzi, i faraoni iniziano a sposare donne estranee alla famiglia reale.

Il divieto di nozze tra consanguinei era invece valido per tutti coloro che non appartenevano alla famiglia reale ovvero alla nobiltà.

Inutile dire che nel XXI secolo il matrimonio poligamico e, soprattutto, l’incesto sono pratiche ampiamente condannate dal diritto. In Italia per contrarre matrimonio è necessario avere lo stato civile libero, non è possibile avere un altro vincolo matrimoniale. Lo stesso codice penale punisce con la reclusione da uno a cinque anni chi, pur avendo già un vincolo matrimoniale, pone in essere un secondo matrimonio. Il divieto, esplicitamente contemplato dall’articolo 556 del codice penale, è una forma di tutela per la morale insita nel vincolo matrimoniale, così come espresso nel nostro ordinamento giuridico. Vi sono però eccezioni, la fede musulmana consente di sposare più donne. I riti celebrati nel territorio italiano, ma in una moschea quindi privi di effetti nell’ordinamento civile italiano, non costituiscono una fattispecie di reato. L’unico matrimonio valido per lo stato italiano sarà quello registrato.

Maschera Funeraria di Merit, XVIII dinastia, Nuovo Regno, Museo Egizio di Torino

Per quanto riguarda il matrimonio tra consanguinei è superfluo ribadire che è vietato dall’ordinamento. Il codice penale dedicata a questa fattispecie l’articolo 564: l’incesto costituisce reato qualora commesso con un ascendente o un discendente e, in ogni caso, ci deve essere una relazione di consanguineità. Non costituisce reato la relazione tra adottante e adottato.

Passiamo ora agli aspetti patrimoniali del matrimonio nell’antico Egitto.

Era tradizione che gli sposi si scambiassero beni all’inizio del matrimonio, lo sposo trasferiva la proprietà di un bene, chiamato šp, al padre della sposa con lo scopo di materializzare il distacco tra la sposa e la sua famiglia e il formarsi di una nuova famiglia.

Anche il padre della sposa era solito fare un regalo, chiamato ḥd n ir ḥm-t, alla coppia e offrire un banchetto per celebrare l’unione.

Il dono del padre aveva un valore superiore al regalo fatto dallo sposo, e può essere assimilato al concetto più moderno di dote. La dote è quell’insieme di beni posseduti dalla donna e dati al marito per contribuire agli oneri nascenti dal vincolo matrimoniale.

Un terzo di beni era generalmente posseduto dalla sposa, si tratta dei suoi beni personali ovvero tutti gli oggetti a lei necessari per la cura della sua persona: cosmetici, gioielli, abiti…

Questi oggetti venivano identificati con il termine nkt-w n s-ḥm-t-, erano di proprietà della moglie ma il marito poteva disporne a sua piacere.

La moglie poteva, però, avere altri tipi di proprietà che non potevano essere gestite dal marito. Alla donna era quindi garantito un certo grado di indipendenza.

Le proprietà acquisite durante il matrimonio erano possedute unitamente dagli sposi, due terzi spettavano al marito e un terzo alla moglie, tuttavia quest’ultima non aveva pieno controllo dei beni posseduti congiuntamente sino a che il matrimonio era in essere.

Il marito aveva poi il dovere di mantenere la moglie e i figli, diversi documenti risalenti al periodo tolemaico mostrano come ci fossero veri e propri contratti in cui queste obbligazioni venivano messe per iscritto. In questi ‘’contratti matrimoniali’’ era prevista anche l’ipotesi di divorzio.

Ma gli antichi egizi divorziavano davvero? Ebbene si.

Entrambi i coniugi (quindi sia il marito che la moglie) potevano chiedere il divorzio.
La prima testimonianza di un divorzio chiesto dal marito nei confronti della moglie risale alla XII dinastia, Medio Regno, mentre la prova di un divorzio posto in essere da una donna risale al 500 a.C, siamo quindi nel periodo tardo.

Pendua e la moglie Nefertari, XIX Dinastia,
Nuovo Regno, Museo Egizio di Torino

Come abbiamo visto, i coniugi, spesso stipulavano “contratti matrimoniali” o “contratti di rendita” in cui stabilivano le obbligazioni economiche che il marito aveva nei confronti della moglie (e dei figli).
In caso di divorzio senza adulterio il marito doveva restituire alla moglie:
šp ovvero il regalo nuziale;
ḥd n ir ḥm-t ovvero la dote (oppure l’equivalente di questa);
Nkt-w n s-ḥm-t ovvero i suoi effetti personali;
S’nḫ ovvero i fondi a lui donati, all’inizio del matrimonio, per il mantenimento della moglie e dei figli;

-Un terzo delle proprietà acquisite durante il matrimonio.

Se il marito non riusciva a restituire i beni elencati entro trenta giorni questo doveva continuare a mantenere la ormai ex moglie sino all’avvenuta restituzione dei beni.

Nel caso in cui fosse stata la donna a chiedere il divorzio, in assenza di adulterio, questa non doveva al marito alcun tipo di pagamento ovvero, in alcune fattispecie contrattuali, doveva corrispondere al marito metà del “regalo nuziale” šp.
In caso di adulterio da parte della moglie, invece, il marito non era tenuto a corrispondere alcun tipo somma.

Più in generale la parte che richiedeva il divorzio, se ritenuta colpevole di questo per aver assunto comportamenti dannosi per il rapporto matrimoniale, era costretta a rinunciare ad ogni diritto sulle proprietà possedute in comunione.

Nell’analizzare la disciplina del divorzio nell’antico Egitto ho trovato innumerevoli similitudini con quello che è il divorzio nel XXI secolo.

Quando si dice che il coniuge a cui è attribuita la causa del divorzio perde ogni diritto sulle proprietà acquisite durante il matrimonio si pensa subito a quello che oggi giorno viene definito come addebito del divorzio! L’addebito si ha quando viene rilevato che il comportamento colpevole di uno dei coniugi ha scatenato un’impossibilità nel continuare a porre in essere i doveri matrimoniali. A questo punto il coniuge colpevole, esattamente come succedeva nell’antico Egitto, perde la possibilità di chiedere il mantenimento e perde qualsiasi diritto successorio in caso di decesso del coniuge non colpevole.

E’ sempre confortante trovare nello studio di civiltà così distanti da noi elementi comuni e differenze rilevanti rispetto alla vita nel XXI secolo, quasi a voler testimoniare come lo studio del passato sia fondamentale per comprendere il presente ed evitare di commettere errori già ripetuti nel corso dei secoli.

Giulia Santini.

Bibliografia:

  • Alan Gardiner, Egypt of the Pharaohs
  • Jon Wilson, Authorithy and law in ancient Egypt
  • Pieter Pestman, Marriage and matrimonial property in ancient Egypt

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