Setne e il libro magico

Setne e il libro magico

Setne e il libro magico

Un’ipotesi sulle origini degli scritti ermetici

Ezio Albrile

Le tradizioni islamiche ci raccontano di come le piramidi in realtà fossero i sacelli di Ermete Trismegisto, sepolcri o cenotafi che racchiudevano una sapienza misterica antichissima[1].  Immemore del rapido avvicendarsi delle ére cosmiche, Ermete viveva appartato nel chiuso di un cenotafio piramidale[2], in una sorta di animazione sospesa. In altre versioni, il primo Ermete era identificato con Enoch vissuto in Egitto; il secondo, babilonese, era il Mercurio dei Caldei (Nabu/Nebo); e il terzo, egiziano, padre dell’alchimia, era il «tre volte grande» Trismegisto, summa dei due precedenti[3], le numerose scienze e tecniche conosciute prima del diluvio universale sarebbero quindi state salvate, scolpite in forma geroglifica sulle mura delle piramidi[4]. Il mago Bitys, secondo Giamblico, scoprì a Sais dei geroglifici scritti da Ermete-Thot, li tradusse e li fece conoscere al faraone Ammon[5].

Naneferkaptah

Se vogliamo afferrare i legami tra l’Egitto e l’ermetismo dobbiamo partire dalla storia del principe Naneferkaptah alla ricerca di una sapienza raccolta nei rotoli di un misterioso libro: il libro magico scritto dal dio Thot, il dio egizio dalla testa di ibis, patrono della  sapienza e della scrittura[6], l’antenato mitico dei testi ermetici.

Vediamo di che si tratta.

Protagonista della storia è Khaemwaset, figlio del faraone Ramses II ‒ nelle fonti greche noto anche come Osymandyas, nome che più recentemente è tornato alla ribalta quale supereroe negativo della serie a fumetti Watchmen ideata da Alan Moore e disegnata da Dave Gibbons (DC Comics, 1986-1987)[7]. Il nome con cui viene indicato nel racconto, Setne, deriva dall’antico egiziano setem, che significa «sommo sacerdote», nel caso specifico, del dio Ptah, il dio supremo di Menfi, signore del destino e creatore del mondo. Khaemwaset-Setne in realtà è protagonista di due storie (indicate generalmente come Setne I e Setne II), a noi però interessa solo la prima[8], conservata su un papiro del III sec. a.C. proveniente da Tebe e ora al Museo del Cairo (n. 30 646).

È anche verosimile credere che nelle storie di Setne riviva la figura di Nectanebo II, l’ultimo re originario d’Egitto, l’ultimo faraone spodestato dall’invasione persiana sotto Artaserse III Ocho nel 343 a.C., figura mitica sovrano, sacerdote e mago[9], esperto in ogni genere di incantamento. Onnisciente nei misteri del cielo, del mare e della terra, era abile nel divinare gli astri, nell’interpretare ogni tipo di segni, nel trarre oroscopi, nel predire i destini di bambini non ancora nati, o, in altre parole, in magie d’ogni tipo.

Setne I comprende una prima parte, una sorta di introduzione che è andata perduta, e una seconda parte che incorpora una ulteriore narrazione e un finale unificante.

Nella parte smarrita e ricostruita dall’egittologo francese Gaston Maspero (1846-1916), Setne, saggio e grande mago è indotto (da una diceria o da un incantesimo) a scendere in una tomba alla ricerca del Libro magico di Thot; lì incontra il fantasma del principe Naneferkaptah[10], figlio del faraone Mernebptah (forse una corruttela per Merenptah). Qui inizia la seconda parte con il racconto di Ihweret sorella e sposa di Naneferkaptah – un incesto che riproduce quello più famoso fra la regina Arsinoe e il fratello Tolemeo II. Ihweret narra dell’amore per il fratello e di come abbia persuaso il loro padre, il faraone, a permettere il matrimonio.

Dopo la nascita del figlio Meribptah, il racconto prosegue descrivendo l’incontro tra Naneferkaptah e un misterioso sacerdote-mago che gli rivela l’esistenza di un Libro magico scritto dallo stesso dio Thot, con il quale è possibile operare ogni sorta di prodigi, comprendere il linguaggio degli animali, acquisire il potere della bilocazione e alla fine rendersi pure immortali.

1. Un testamento astrale

Questo libro, che può dirsi il modello mitologico di ogni scritto ermetico è nascosto sull’isola di Koptos, e il luogo dov’è seppellito è rivelato dal sacerdote-mago a Naneferkaptah in cambio di una lauta somma di danaro.

Una serie di contenitori, di scrigni o forzieri, custodiscono il libro. Sei contenitori foggiati in materiali differenti (in gran parte metalli) racchiudono un ultimo scrigno d’oro che lo contiene; sette con il libro, a imitazione di una serie planetaria. Non a caso, poiché l’ultimo contenitore, oltre ad essere protetto da una schiera di rettili velenosi è circondato da un Ouroboros, un «Serpente infinito» o «eterno», che le tradizioni gnostico-ermetiche celebreranno come immagine dei poteri planetari, che in esso sono racchiusi. Nelle sue tortuosità, come in un utero, stanno i pianeti, dal più oscuro al più perfetto; secondo una nota cosmografia gnostica, oltre le spire dell’Ouroboros stava il Paradiso[11], e ancora oltre gli spazi luminosi del Padre e del Figlio.

Accompagnato dalla moglie e dal figlio, il principe Naneferkaptah raggiunge l’isola dove si trova il prezioso scrigno, sconfigge l’Ouroboros, il «Serpente infinito», e giunto in possesso del Libro magico compie ogni sorta di prodigio. Venuto a conoscenza dei fatti, il dio Thot  si lagna con Râ, il sommo dio, del furto. Repentina, la vendetta del dio non si fa attendere e si rivolge prima contro la moglie e il figlio di Naneferekaptah, che muoiono annegati, in seguito lo stesso principe si getterà in mare affogandosi. Ihweret quindi descrive come gli dèi avessero decretato la morte per lei e per Meribptah, guidando Naneferkaptah ad annegare lui stesso. La famiglia è quindi separata per l’eternità: Naneferkaptah sepolto nella necropoli reale di Menfi, mentre Ihweret e Meribptah trovano riposo nell’isola di Koptos, vicino al luogo dove sono morti.

Ma Setne non si lascia suggestionare dal racconto di Ihweret, poiché vuole per sé il Libro del dio Thot. Per averlo ci sono due modi: attraverso un’azione magica, oppure vincendolo a una partita di dama, giocata contro il fantasma di Naneferkaptah stesso. Setne esce sconfitto dalla gara, quindi non gli resta che ricorrere alle arti magiche, agli «amuleti di Ptah». Setne si impadronisce del libro incurante delle parole di Naneferkaptah che già lo vede tornare, pentito e umiliato.

Così infatti avverrà: non trascorre molto tempo che Setne perde letteralmente la testa per una bellissima e seducente donna di nome Tabubue, sacerdotessa della dea Bastet. Dopo aver chiesto e ottenuto ogni bene e ogni avere, in cambio di favori sessuali, Tabubue pretende da Setne anche la vita dei figli, che vengono uccisi e dati in pasto ai cani. Ma tutto questo per fortuna è un sogno, un incantesimo scagliato dallo stesso Naneferkaptah: così il principe si risveglia, vergognosamente ignudo, alla presenza del faraone. Il messaggio è chiaro: una disgrazia vera colpirà Setne se non riporterà il Libro magico di Thot donde l’aveva sottratto, cioè nella tomba di Naneferkaptah.

Nella conclusione, le due storie si uniscono: riavuto il libro, il fantasma  di Naneferkaptah chiede a Setne di potersi ricongiungere con i propri cari; così le mummie della sposa  Ihweret e del figlio Meribptah verranno traslate da Koptos alla sepoltura di Menfi. Tutti i conflitti in sospeso sembrano apparentemente risolti e tutti, compresi i morti, vissero felici e contenti.

2. La regina ermetica

Se questa è la storia che più nutre l’immaginario ermetico sull’Egitto come patria della conoscenza,  ne sopravvive un’altra, incestuosa e ancora tutta egiziana, che lega le origini dei libri ermetici alla spregiudicata regina Arsinoe II, mossa da sfrenata cupidigia di potere, ma tanto esaltata dai poeti di corte dopo la morte.

Arsinoe

Arsinoe da giovinetta era servita quale strumento di politica espansionistica egiziana nel Mediterraneo. Nel 300 a.C. all’età di appena sedici anni era stata mandata in Tracia a sposare l’anziano re Lisimaco e vi aveva governato come regina. Quando il vecchio rimbambito morì, cioè nel 280, trovò rifugio nella patria nativa presso il fratello Tolemeo II, che tre anni dopo la sposò, da cui l’eponimo di «Filadelfo» = «Fratello-amante»[12].

Per le sue nozze i poeti del tempo diedero il meglio, anche Eratostene celebrò il fausto e incestuoso evento con un dialogo in onore di Dioniso[13]. Alla triste notizia della sua morte, nel luglio del 270, Callimaco compose la Ektheōsis Arsinoēs, celebrandone l’apoteosi, la divinizzazione[14], immaginandola rapita in cielo dai Dioscuri, accolta tra le stelle dell’Orsa Maggiore (asterian hyp’ hamaxan) mediante il solito artifizio poetico del catasterismo[15].

Morta la sorella-sposa, sappiamo che il Filadelfo fece costruire in onore di lei un monumento di culto principesco, sul quale erano scolpite due cornucopiae associate. Qualche tempo dopo iniziò a circolare la voce – sempre più insistente – che i due fratelli-amanti fossero entrati in possesso di uno scritto molto prezioso, il «Libro magico di Thot», che permetteva di agire sul divenire, superando le facoltà umane, avvicinandosi alle divinità mediante formule e rituali incantatori.

Figli e successori cercheranno affannosamente questo libro meraviglioso[16]. Le loro vicende sembrano quindi imitare la storia  di Setne e di Naneferkaptah alla ricerca del libro esoterico del dio Thot. Un classico della letteratura magica dell’Antico Egitto, la cui fama è unita alla tomba che custodisce la sapienza del futuro Ermete Trismegisto.

Il legame fra il Libro magico che reca l’immortalità e il luogo dove l’immortalità apparentemente è obliterata, cioè il sepolcreto, è palese quindi nelle stesse origini della gnosi ermetica. Molti insegnamenti ed esperienze che leggiamo in testi gnostici ed ermetici hanno come luogo d’incubazione l’Egitto, l’Egitto è da sempre la patria dei «misteri»[17] e secondo alcuni il  culto  di Osiride  servì  da modello  per la  formazione  di quello greco di  Dioniso[18]; la stessa  festa  delle Thesmophoria si  diceva introdotta dall’Egitto in  Grecia  dalle figlie di  Danao[19].

3. Eternità iniziatiche

Con il culto di Osiride abbiamo a che fare con gli spazi della morte, dell’incesto e di una resurrezione conquistata attraverso una «iniziazione». Osiride è il dio soppresso e smembrato dalle forse avverse, che viene ricostruito e rinasce grazie alle benemerenze della sorella-sposa Iside; poiché tornato dall’aldilà egli è quindi il primogenito dei morti, signore e giudice del mondo infero.

C’è una formula ricorrente in numerose stele funerarie che nomina il defunto come «realmente giustificato in terra». L’identità di «giustificato» è attribuita, nella prassi funeraria, al morto dopo che questi ha felicemente superato il giudizio del tribunale presieduto dal dio Osiride. Di conseguenza la «giustificazione in terra», di cui parla la formula, induce a pensare che l’esperienza del trapasso sia già stata sperimentata «sulla terra» (tep ta), cioè durante la vita. Ipotesi che si lega a quanto leggiamo nel cap. 19 del Libro dei Morti, tarda opera papiracea di epoca tolemaica, dove appare una «Corona di Giustificazione»[20] (mɜḥ n mɜ‛ ḫrw = mah en maa kheru), manifestazione visibile del trionfo sulla morte conseguito nell’Amduat, nell’Aldilà. Nelle vignette che illustrano la scena, la corona è dipinta come un’aureola sprizzante raggi, segno di una raggiunta identità solare. In pratica ciò si realizzava sottoponendo la mummia – prima della sepoltura – a un giudizio preliminare analogo a quello che il defunto avrebbe dovuto subire innanzi al tribunale di Osiride. Ovviamente il pronunciamento era favorevole e, alla conclusione, la mummia riceveva la coroncina o ghirlanda floreale.

Testimone attento e suggestivo dei tardi misteri isiaci[21], Apuleio nelle Metamorfosi racconta la strana stoia di Lucio trasformato da una maga in asino.

L’undicesimo libro del romanzo descrive l’iniziazione isiaca come una cerimonia imitativa della morte e risurrezione di Osiride[22]. La precedono un bagno di purificazione, digiuni, preghiere con la continua assistenza di un sacerdote isiaco. L’adepto, a compimento dell’iniziazione, viene adornato di una fulgente «stola olimpica», di una corona e fatto sedere sopra un trono, esposto alla venerazione degli astanti, come un nuovo Osiride-Sole. La «corona di giustificazione» che l’iniziato cinge, è la stessa ghirlanda di rose che l’Asino-Lucio strappa dalle mani del sacerdote di Iside per mangiarla e trasformarsi nuovamente in uomo[23].

4. Crisi e salvezze

Le certezze dell’Antico Regno paiono tramontare con la fine della VI dinastia, cui segue un periodo di divisione politica e di disordine sociale detto «primo periodo intermedio» (ca. 2200-2000 a.C.). È  in tale segmento temporale che si dovrebbe collocare il terzo livello di candidati all’immortalità. La crisi sociale comporta infatti una decisiva trasformazione nel concepire la vita ultraterrena. Se prima si confidava di sopravvivere grazie a un rapporto privilegiato con il sovrano ritenuto dio, ora che questa figura appare sbiadita e messa in dubbio, prende piede un altro tipo di religiosità, accentrato sul dio Osiride e sulla sua vicenda di morte e di resurrezione, ampliando le speranze di immortalità a un più vasto uditorio.

Ermete Trismegisto

Il defunto deve presentarsi innanzi al tribunale di Osiride per essere giudicato sulla base di quanto ha fatto in vita. Quindi il sarcofago viene ricoperto di testi magici che aiutano il defunto a superare le prove che lo attendono nell’aldilà. Una sorta di «democratizzazione» dell’accesso alla vita eterna, basata non più sul collegamento con il faraone, ma sul comportamento individuale. Una più vasta pletora di candidati alla sopravvivenza nell’aldilà si fa quindi avanti; è il resto del popolo, per cui il rituale funerario diventa una necessità imprescindibile: il desiderio di possedere già in vita una tomba con le sue dotazioni magiche e cerimoniali atte a garantire un’esistenza eterna, si unisce a una complessa e precisa indagine sulle componenti infime dell’anima umana.

Osiride è il dio che Erodoto «non osa nominare», e le cerimonie che ne celebrano la passione sono i suoi misteri. La testimonianza di Erodoto è preziosa, poiché l’antico etnografo nota la stretta affinità tra i misteri greci e la «teologia» esoterica egizia, confermando di fatto l’unità originaria delle diverse conoscenze misteriche elleniche[24].

Plutarco

Più esplicito sembra Plutarco, che narra come  i misteri vennero istituiti dalla dea Iside[25]: la sorella e sposa di Osiride riteneva che il proprio dolore e i patimenti del marito smembrato dal fratello Seth non dovessero passare sotto silenzio, e fondò i misteri proprio a questo fine, affinché la drammatizzazione della «passione» del dio potesse in qualche modo allievare le angosce degli uomini[26]. Quindi, come affermerà anche il neoplatonico e cristiano Sinesio di Cirene, negli antichi misteri non si andava ad apprendere nulla, bensì si raggiungeva, attraverso un’emozione profonda, un’estasi sacra, la condivisione di un’esperienza unica, la morte e la rinascita con il dio[27].

I veri misteri in cui si rievocava intimamente la «passione» di Osiride, le sue sofferenze e la resurrezione, si celebravano a porte serrate, nell’intimità del tempio[28], mentre l’azione scenica in cui il pubblico era ammesso, solo impropriamente  poteva definirsi «misterica», in realtà si trattava di una drammatizzazione sacra in cui la stessa vicenda era rivissuta platealmente.

Gli aspetti della rievocazione mitica erano sostanzialmente tre[29]: una parte segreta, riservata ai soli iniziati e che si svolgeva nel più occulto recesso templare, una parte semipubblica in cui gli spettatori erano ammessi a partecipare come attori nella rappresentazione delle vicende di Osiride nella lotta contro il fratello Seth. Questa è simbolicamente raffigurata da un attacco al corteo dei partecipanti da parte degli accoliti di Seth. Infine la terza parte, consistente in uno spettacolo collettivo nel quale la partecipazione in massa del popolo restituiva alla celebrazione il primitivo carattere di rito agrario. Non bisogna infatti dimenticare che Osiride all’inizio è un dio della vegetazione, di ciò che «rinasce» ciclicamente e annualmente a nuova vita[30]: nella forma di Osiride-Nepri, incarnava l’antichissimo dio agricolo dello «spirito del grano».

5. Scenari misterici

Pitture e bassorilievi templari, testi geroglifici, testimonianze greco-romane ci fanno conoscere svariate rappresentazioni sacre del mito osiridiano che si svolgevano in pubblico o in segreto. Così, secondo la Stele di Ikhernofret (Berlin, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, ref. 1204), capo del tesoro di Sesostri III, si mimavano ad Abido, con piena partecipazione del popolo, i tre episodi più significativi della leggenda di Osiride. In vivaci combattimenti gli Osiriani sottraevano ai seguaci di Seth il corpo di Osiride, figurato da una statua di lapislazzuli e pietre preziose, quindi lo seppellivano nella sua tomba e alla fine lo intronizzavano solennemente nel suo tempio[31]. Il Papiro Bremner-Rhind (British Museum No. 10188), risalente all’inizio dell’epoca greca, unisce materiali interessanti. È un rituale per la festa delle due «femmine di nibbio», cioè di Iside e della sorella Nefti. Racconta quanto devono fare e recitare due donne vergini, che personificano le due dee in lacrime per la morte del fratello Osiride[32]. Stando a Minucio Felice (Octav. 21), «Iside, con i suoi calvi sacerdoti e il Cinocefalo, piange il proprio figlio perduto, si lamenta, lo cerca e i miseri adoratori di Iside si percuotono il petto cercando di eguagliare il dolore della sventurata madre: poi, ritrovato il pargolo, Iside gioisce, e allora i sacerdoti esultano».

Stele di Ikhernofret

Il segreto mantenuto dagli iniziati, Apuleio non escluso, non permette di conoscere i riti che si svolgevano durante i misteri isiaci. Non si è, tuttavia, lontani dal vero se si pensa che, come in quelli di Eleusi, anche nei misteri di Iside dovevano esserci delle azioni, delle parole e delle visioni sacre (ta drōmēna, ta legomēna, ta deiknymēna). I mysti facevano, dicevano, contemplavano qualcosa. Atenagora (Leg. 22) riferisce che «nei misteri ci si rivolge in questi termini a Iside a proposito del ritrovamento delle membra e dei frutti: “Abbiamo trovato, siamo contenti”». Secondo Firmico Materno (De err. prof. rel. 23) un cristiano dell’ultima ora, durante la notte veniva adagiata su di un letto funebre la statua di Osiride e al buio si levavano lamentazioni e pianti. Poi veniva portata una luce e il sacerdote ungeva la gola dei mysti pronunciando la formula: «Rallegratevi, o mysti del dio salvato, / ci sarà per voi salvezza dalle pene». Da buon opportunista, Firmico commenta ironico: «Tu seppellisci un idolo, piangi un idolo, togli dal sepolcro un idolo, e quando hai fatto questo gioisci, o infelice. Tu liberi il tuo dio, tu ne adagi sul giaciglio le membra di pietra, tu sollevi una pietra inerme». È sicuro che nei misteri isiaci doveva svolgersi una rappresentazione sacra della passione della dea. Forse saranno state scene che mimavano l’odissea della sposa che «instancabile cerca Osiride» (numquamque satis quaesitus Osiris), come affabulava Ovidio (Met. 9, 692). Si sarà trattato di riti commemorativi nel senso pieno del termine, nei quali la fede dei mysti non si limitava a rievocare in maniera asettica e anonima i dolori della dea, ma li attualizzava e li riviveva nel corpo e nello spirito traendone esempio e sollievo.

Osiride, del resto, appare in stretti rapporti con la terra, rappresentata da Geb, già nei Testi delle Piramidi. Un rito magico agreste è illustrato nel tempietto osirideo annesso a quello di Hathor a Dendera. I sacerdoti confezionavano statuette in sabbia e argilla su cui veniva seminato il grano. Queste statuette, composte nelle quattordici città dove, secondo la tradizione, Iside aveva trovato i frammenti del corpo dello sposo Osiride, venivano più tardi portate al tempio di Sokaris e seppellite nella locale necropoli il giorno in cui s’iniziavano i lavori agricoli per il nuovo anno.

6. Un dio alchimico

Il dramma di Osiride può quindi aver avuto origine come tema di un ciclo di riti della fertilità, conservandone sempre il carattere agrario, ma questo è stato subordinato all’elemento misterico: il culto di questo dio si distingue fra tutti gli alti dell’antico Egitto per la vicenda di morte e di resurrezione, e per le sofferenze da lui patite.

Il grano, germinando, figura il mistero della resurrezione, il mistero della morte di Osiride. Un noto alchimista alessandrino, Olimpiodoro mette sulle labbra di Ermete un enigmatico aforisma[33]:

«La terra vergine si trova nella coda della Vergine».

L’universo simbolico di Olimpiodoro attinge a quel brulicame di miti e cosmogonie che è l’Egitto ellenizzato; l’aforisma, che non ha riscontro nei testi ermetici a noi pervenuti, si spiega con una metafora astrale: osservando il cielo, dietro all’Orsa Maggiore, simile a un uomo che sta arando, si muove la stella Artofilace (Arktophylax), letteralmente il «Guardiano dell’Orsa», nota anche come Boote (Boōtēs), il «Bovaro», sotto i suoi piedi si trova la costellazione della Vergine, che stringe in mano la luminosa Spiga[34]. Secondo il mito, ci fu un tempo in cui lei, immortale, viveva in mezzo agli uomini, che la chiamavano Giustizia (Dike): in quel tempo non si conosceva la lotta né il fragore della battaglia, gli uomini vivevano con semplicità e, senza navigare, ricevevano dai buoi, dall’aratro e dalla Giustizia stessa tutto ciò di cui avevano bisogno. Così vissero finché la terra si trovò nell’età dell’oro. Con l’età dell’argento la Giustizia cominciò a frequentare gli uomini più di rado, rimpiangendo la generazione precedente: scendeva dai monti sul far della sera e restava in disparte, rimproverandoli per la loro perversità. Ma quando nacquero gli uomini dell’età del bronzo, che per primi forgiarono la spada e mangiarono la carne dei bovini, la Giustizia volò in cielo, insediandosi accanto al luminoso Boote, dov’è ancora visibile di notte.

Zodiaco di Dendera

Nella costellazione della Vergine, nella «coda», troviamo quindi la Spiga (Stachys), la spiga di grano, per confermare la metafora agraria e pastorale; questa stella – collocata a ridosso dell’eclittica – in virtù della sua grande luminosità è probabilmente l’elemento più antico della costellazione, dato confermato anche dalla sua presenza nelle carte celesti babilonesi[35].  Guardando il famoso Zodiaco di Dendera noteremo che la costellazione della Vergine è effigiata nella dea Iside recante nelle mani il piccolo Horus (la costellazione della Spiga)[36], il figlio di Osiride. Nel pargolo di Osiride si riconosce la Spiga, la costellazione che si trova accanto alla Vergine – per essere più precisi al confine tra Vergine e Bilancia (al grado 0 della Bilancia) – l’Iside dello Zodiaco di Dendera.

Osiride, nella sua cassa, è gettato nelle acque del Nilo, in un fiume in movimento, è immerso nel flusso di una «corrente» che tutto trasforma. È lo scorrere imprevisto degli eventi in cui viene a trovarsi l’iniziato ai misteri. È la «discesa agli Inferi», la katabasis eis Ha[i]dou nei vari miti antichi.

Seth, l’Avversario, il principio «tifonico», scopre (a causa della luce lunare, cioè nel sogno ordinario), il corpo di Osiride nel luogo segreto ove era stato posto, e ne fa scempio. Lo smembra in quattordici parti (ossia 7+7, la doppia sequenza planetaria) che disperde le une lontane dalle altre. È l’isolamento delle singole potenzialità dal reciproco rapporto di interdipendenza, la disgregazione della personalità fittizia. Il fallo di Osiride è divorato da un pesce, animale che vive nella «corrente», nel flusso del divenire. Iside, la forza attrattiva, cerca e ritrova le sparse membra dello sposo. L’identità dell’iniziato, disaggregata nelle singole illusorie identità, è man mano ricostruita.

Iside, trovati i frammenti delle membra di Osiride e riunitili, concepisce Horus. Iside, la forza attrattiva, dopo aver vinto la «corrente» del divenire, dopo la «discesa agli Inferi», dopo aver «ricostruito» il corpo di Osiride, fa sì che lo stesso marito-fratello possa risorgere nell’apoteosi cosmica dell’immortalità. Una di tali manifestazioni è Sokaris/Seker, il Sole notturno, il dio che nel culto funerario menfita è ritenuto manifestazione di Osiride risorto[37].

Ezio Albrile


[1] D. Chwolsohn, Die Ssabier und der Ssabismus, I, Buchdruckerei der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften, Saint-Pétersbourg 1856, I, pp. 783 ss.

[2] Per le piramidi egizie quali sepolcri o sacelli di Ermete, Chwolsohn, Die Ssabier, I, pp. 492 ss.

[3] D. Pingree, The Thousands of Abu Ma‘shar (Studies of the Warburg Institute, 30), Warburg Institute-Univrsity of London, London 1968, pp. 14-18.

[4] A. Fodor, «The Origins of the Arabic Legends of the Pyramids», in Acta Orientalia Scientiarum Hungaricae, 23 (1970), pp. 335-363.

[5] De myst. 8,5; 10, 7.

[6] S. Donadoni, Testi religiosi egizi, UTET, Torino 1970, pp. 542 ss.; e prima R. Reitzenstein, Hellenistische Wundererzählugen, B. G. Teubner, Leipzig 1906, pp. 112 ss.

[7] Da cui è stato tratto un film di successo diretto da Zack Snyder (Warner Bros.-Paramount Pict.-Legendary Pict. 2009, 215’ [Ultimate Cut]), e una meno fortunata miniserie televisiva (ideata da Damon Lindelof, HBO/Sky Atlantic 2019).

[8] E. Bresciani, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi, Torino 1969, pp. 616-626.

[9] B. E. Perry, «The Egyptian Legend of Nectanebus», in Transactions and Proceedings of the American Philological Association, 97 (1966), pp. 327-333.

[10] S. Vinson, «The Names “Naneferkaptah,” “Ihweret,” and “Tabubue” in the “First Tale of Setne Khaemwas”», in Journal of Near Eastern Studies, 68 (2009), pp. 283-304.

       [11] Cfr. le differenti ricostruzioni del cosmogramma, detto «Diagramma degli Ofiti», a partire da H. Leisegang, Die Gnosis (Kröners Taschenausgabe, Band 32), A. Kröner, Leipzig 1924, p. 169, che nella terza edizione del suo lavoro (Freiburg 1941) rivede parzialmente lo schema (ivi, p. 170, n. 3) seguendo Th. Hopfner, «Das Diagramm der Ophiten», in Aa.Vv., Charisteria. Alois Rzach zum Achtzigsten Geburstag Dargebracht, G. Stiepel, Reinchenberg 1930, pp. 86-98; vd. da ultimo B. Witte, Das Ophitendiagramm nach Origenes’ Contra Celsum VI 22-38 (Arbeiten zum spätantiken und koptischen Ägypten, 6), Oros Verlag, Altenberge 1993, pp. 140 ss.; e l’importante A. J. Welburn, «Reconstructing the Ophite Diagram», in Novum Testamentum, 23 (1981), pp. 261-287.

[12] G. Capovilla, «Callimaco e Cirene storica e mitica», in Aegyptus, 43 (1963), p. 152.

[13] Athen. 7, 276.

[14] Pap. Ber. 13417c = fr. 228.

[15] G. Capovilla, «Callimachea et libyca», in Aegyptus, 42 (1962), pp. 62-63.

[16] G. Fowden, The Egyptian Hermes. A Historical Approach to the Late Pagan Mind, Cambridge University Press, Cambridge 1986, pp. 45-74.

[17] E. Albrile, Misteri pagani Mistero cristiano (Spiritualità senza Dio?, 17), Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 78-92.

[18] G. Capovilla, «Aegyptiaca. Contributo all’espansione culturale dell’Egitto antico. I», in Aegyptus, 37 (1957), p.18.

[19] Herod. 2, 171.

[20] Ch. Riggs, The Beatiful Burial in Roman Egypt. Art, Identity, and Funerary Religion, Oxford University Press, Oxford 2005, pp. 81-82.

[21] N. Turchi, s.v. «Iside. I misteri isiaci nell’età ellenistica», in Enciclopedia Italiana, Appendice I, Treccani, Roma-Milano 1938, pp. 738 b-739 a.

[22] Cfr. P. Scarpi-B. Rossignoli (cur.), Le religioni dei misteri, II, Fondazione L. Valla-Mondadori, Milano 2002, C21-C23, pp. 218-223; E2, pp. 236-239.

[23] Met. 11, 13.

[24] Herod. 2, 49; 123

[25] P. De Simone, Mito e verità. Uno studio sul “De Iside et Osiride” di Plutarco (Temi metafisici e problemi del pensiero antico. Studi e testi, 143), Vita e Pensiero, Milano 2016, pp. 61-62.

[26] Plut. De Isid. et Osir. 3361 D-E (cap. 27).

[27] Sin. Dion. 48.

[28] R. T. Rundle Clark, Mito e simbolo nell’Antico Egitto, trad. it. B. Boffito Serra, Il Saggiatore, Milano 1969 (ed. or. London 1959), pp. 151-152.

[29] B. De Rachewiltz, Egitto magico religioso, Basaia Editore, Roma 19822 (rist. Fratelli Melita, La Spezia 1989), pp. 119-120.

[30] Rundle Clark, Mito e simbolo nell’Antico Egitto, pp. 91-97;  J. G. Griffiths, The Origins of Osiris and his Cult (Studies in the History of Religons. Numen, Supplements, 40), E. J. Brill, Leiden 1980.

[31] J. Vandier, La réligion égyptienne (Mana. Introduction à l’histoire des religions,1 / Les anciennes religions orientales, 1), PUF, Paris 1944, pp. 187-189.

[32] S. Donadoni, Testi religiosi egizi, Torino 1970, pp. 237-251.

[33] Hiera tech. 24 (M. Berthelot-Ch. Ém. Ruelle (éds.), Collection des anciens alchimistes grecs, II, Les  Belles Lettres, Paris 1888 [repr. Osnabrück 1967], p. 83, 5-6 (testo) = trad. E. Albrile [cur.], Olimpiodoro. Commentario al libro di Zosimo “Sulla forza”, alle sentenze di Ermete e degli altri filosofi, Mimesis, Milano 2008, p. 69).

[34] Arat. Phaen. 96-146.

[35] A. Le Boeuffle, Les noms latins d’astres et de constellations, Le Belles Lettres, Paris 1977, p. 165.

[36] Cfr. F. Boll-C. Bezold-W. Gundel, Sternglaube und Sterndeutung. Die Geschichte und das Wesen der Astrologie, B. G. Teubner, Leipzig-Berlin 19315, Taf. II. 3.

              [37] A. DeConick, «From the Bowels of Hell to Draco: The Mysteries of the Peratics», in Ch.H. Bull- L. Ingeborg Lied-J.D. Turner (eds.), Mystery and Secrecy in the Nag Hammadi Collection and Other Ancient Literature: Ideas and Practices. Studies for Einar Thomassen at Sixty (Nag Hammadi and Manicheaen Studies, 76), E. J. Brill, Leiden-Boston 2012, p. 20; J. Doresse, The Secret Books of the Egyptian Gnostics. An Introduction to the Gnostic Coptic Manuscripts Discovered at Chenoboskion, The Viking Press, New York 1960, (repr. Rochester 1986), pp. 51; 274.

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