Appuntamento al buio con «Mosè in Egitto» al San Carlo

È un’inquietante eclissi di sole ad aprire un didascalico e cromaticamente contrastante, “Mosè in Egitto” di Rossini in scena dal 15 marzo al Teatro San Carlo nell’ allestimento della Welsh National Opera di Cardiff. Con la regia di David Pountney, le scene di Raimund Bauer e sotto la direzione musicale di Stefano Montanari, a 200 anni dalla prima, l’Azione Sacra Tragica ha inaugurato in musica le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario della morte del compositore pesarese.

Chiuse le pareti del fondo, oscurato il sole, il palco e persino gran parte della buca d’orchestra, secondo il disegno luci di Fabrice Kebour, sono stati per molti minuti immersi nel buio, nella curiosità sgomenta del pubblico, il quale ha potuto osservare solo la fosforescente bacchetta di Montanari. Gli antichi egizi avrebbero preferito il buio di un sole oscurato all’accensione di lampade ad olio di palma di cui documentatamente pur disponevano. Faraone palm free. Ma la luce che l’anticonformista direttore ravennate ha proiettato sull’orchestra e sul palco del San Carlo è stata ben più diffusa, nitida e calda nel dare chiaroscuri sulle dinamiche e contorni alle frasi. Mise rock e sensibilità barocca. Buona prova dell’orchestra e nota di merito per l’arpa Antonella Valenti e per il clarinetto Sisto Lino D’Onofrio. Rossiniana di rango, Carmela Remigio ha dato voce ed immagine emozionante al personaggio di Elcìa, un ruolo creato per la grande Isabella Colbran, con articolazioni serrate nel registro medio, frasi breve ed incisive e puntate nel registro grave.

Nessuno potrà restituire testimonianza sonora delle esecuzioni della signora Rossini, ma ascoltando Carmela Remigio è difficile immaginare che la bella Isabella potesse fare di meglio. Nel ruolo di Faraone, negli ultimi anni, Alex Esposito è assurto a riferimento assoluto per la rotondità dell’emissione, per la recitazione e per quella capacità di sottolineare gli stati d’animo mutevoli e contradditori che sono propri del personaggio e che muovono, in definitiva, la vicenda, tanto politica che sentimentale. Suo antagonista, nel ruolo del titolo, Giorgio Giuseppini, ha dato corpo ad una vocalità imponente, con veniali imprecisioni di intonazione. Enea Scala è un tenore cui non difetta alcun registro e il suo Osiride sa essere robusto dal grave al sovracuto e anche espressivo, a dispetto di un timbro non sempre rotondo.

A ricordarci che il melodramma verdiano in quel 1818 bussava alle porte ci ha pensato il Coro diretto da Marco Faelli, che, puntuale e ben disposto, ha affrontato però con fin troppo vigore la partitura rossiniana, compensando così il ridotto organico. I costumi di Marie-Jeanne Lecca esaltano la contrapposizione tra popolo dominante e popolo oppresso, correttamente individuabili e quasi senza anacronistiche attualizzazioni. Notevole per fraseggio, estensione e presenza l’Amaltea di Christine Rice, così come positiva è risultata la prova del giovane tenore Marco Ciaponi in Aronne. Alisdair Kent in Mambre e Lucia Cirillo in una fin troppo affettuosa Amenofi, hanno diligentemente completato il cast. Finale con un popolo ebreo liberato che si imbatte in figure inizialmente ostili, che indossano fez. L’impiego di solisti di pregio conduce ad una riflessione su un allestimento che dovrebbe celebrare Napoli nel ruolo di capitale culturale di un’epoca, ma che oggi, inspiegabilmente relega la città a colonia di Cardiff.

Dario D’Ascoli

Fonte: Corriere del Mezzogiorno

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